LE
QUATTRO NOBILI VERITA'
1. "La sofferenza"
2. "L'origine della sofferenza"
3. "La cessazione della sofferenza"
4. "La via che porta alla cessazione
della sofferenza"
Premessa:
Le 4 Nobili
Verità sono la base di ogni insegnamento buddista.
Esse sono
rappresentate da definizioni apparentemente semplici, che sono tuttavia fonte
di innumerevoli riflessioni, ricerche, meditazioni.
Tale
insegnamento fu proclamato dal principe Siddharta, ovvero Shakyamuni, il Buddha
storico vissuto nel 6° secolo a.C., nel Parco dei Daini a Sarnath presso
Varanasi, in India.
Dice il
Buddha: "Solo questo insegno: la sofferenza e la sua cessazione" (su:
Majjhima-Nikaya).
Secondo la
tradizione, Shakyamuni giunse a queste fondamentali e illuminanti verità
meditando su nascita, malattia, vecchiaia e morte, eventi imprescindibili della
condizione umana e non solo umana.
Le
affermazioni contenute nelle 4 Nobili Verità ci mostrano che il Buddismo non
inizia con "c'era una volta..." ma con un "c'è".
E non
racconta favole, ma parla di cause e di effetti, di cose che si sperimentano e
non di cose che, semplicemente, si credono, e men che mai di cose che si
"devono" credere.
La Prima Nobile
Verità:
"La sofferenza"
La Prima
Nobile Verità enunciata dal Buddismo, come si vede, a differenza di ciò che
accade nei miti e nelle religioni, non è un dogma, né un racconto mitologico,
né qualche leggenda più o meno favolistica, e tantomeno una misteriosa
rivelazione.
Niente di
tutto questo.
La Prima
Nobile Verità si occupa di qualcosa che ogni essere vivente può facilmente
verificare per esperienza: la sofferenza "c'è".
Il Buddismo
non si occupa del Cielo, o di luoghi immaginari e metafisici, come le religioni
comuni, ma parte da TE, dalla tua esperienza. Il Buddismo non offre spiegazioni
preconfezionate: invita semmai ad effettuare una ricerca personale su
esperienze e sensazioni che sono alla portata di tutti.
E' opportuno
tenere presente che nella lingua utilizzata dal canone buddista, ovvero la
lingua Pali, di derivazione Sanscrita, la sofferenza è chiamata DUKKHA, che non
significa semplicemente "dolore" quanto piuttosto situazione
incongrua, insoddisfacente, incompleta.
Il termine
DUKKHA deriva da due parole: DUH e KHA.
DUH è un
prefisso negativo e KHA significa vuoto. Dunque DUKKHA sottintende qualcosa di
inconsistente, insoddisfacente, illusorio.
Il termine
italiano "sofferenza" è letteralmente molto più restrittivo di
DUKKHA, quindi dobbiamo utilizzarlo, in riferimento alle 4 Nobili Verità, in
senso esteso.
Scopriremo
dunque che perfino gli stati considerati di piacere sono DUKKHA, perché hanno
sempre in sé, quantomeno, qualcosa di non completamente appagante, di non
completa realizzazione, di illusorio, di senso di perdita o altro.
Non stiamo
dicendo che la condizione umana sia insopportabile oppure inevitabilmente
triste e dolorosa. A volte il buddismo è erroneamente considerato
"pessimista" perchè si scambia la comprensione di DUKKHA per una mera
e rassegnata accettazione della sofferenza.
Non è così,
il DHAMMA (l'insegnamento buddista) ci conduce alla cessazione della
sofferenza, non alla rassegnazione, ma prima dobbiamo compenetrare nel loro
vero significato le quattro Nobili Verità, la prima delle quali consiste
appunto nell'imparare a vedere, a sentire, a capire DUKKHA.
DUKKHA è
ovunque.
La
sofferenza, in qualche forma, è ovunque, sia nell'uomo che in tutti gli esseri
viventi, e in un certo senso anche nelle cose, negli oggetti, nel mondo,
nell'universo. Tutto si può rovinare, consumare, logorare. Tutto è soggetto a
mancanza-eccesso, a perdita, a morte.
Si badi
bene: "c'è la sofferenza" non è una minaccia, non è una condanna, non
è una sconfitta, non è una considerazione negativa, piuttosto, è come se si
dicesse: "la realtà è esattamente così com'è", perché la vita è
intimamente connaturata con DUKKHA.
Non si sta
nemmeno dicendo che la sofferenza è "cattiva" o che è una cosa
"negativa", il buddismo non si occupa di attribuire valori o giudizi, semplicemente si
sta sostenendo (del tutto serenamente!) che "c'è qualcosa che accade in
ogni manifestazione di vita", e questo qualcosa che accade incessantemente
non può essere espresso meglio di come la semplice frase "c'è la
sofferenza", ovvero "c'è DUKKHA", può aiutarci a definire.
Si tenga
conto che "c'è la sofferenza" è un punto di partenza, non di arrivo,
e non necessita di una particolare illuminazione per essere compresa, sebbene
anche le menti più illuminate possono continuare a trarre enormi benefici sulla
costante meditazione sulle quattro nobili verità.
Si noti
anche che "c'è la sofferenza" non pretende di descrivere o definire
la realtà! Non si sta dicendo che tutta la realtà è fatta di sofferenza, ma che
la sofferenza "c'è", che è cosa ben diversa.
"C'è la
sofferenza" può produrre un risultato concreto sul piano della nostra
comprensione perché la sofferenza non siamo "noi", e tantomeno essa è
"dentro di noi" (sebbene possa ANCHE esserci) ma semplicemente la
sofferenza "c'è".
DUKKHA non è
dunque una rappresentazione tragica della realtà, al contrario, si tratta di
una comprensione oggettiva, descrittiva ed impersonale. E' una "presa
d'atto" di qualcosa che accade.
Molte
persone combattono la sofferenza cercando illusoriamente di evitarla o di
compensarla. Un po' come succede nei finali delle fiabe: "E vissero felici
e contenti". Che equivale a dire "la sofferenza non c'è", o
almeno che non ci sarà per moltissimo tempo.
Ma così si
impedisce la comprensione di DUKKHA, e quindi anche la sua cessazione,
preferendo il rimanere nell'illusoria ignoranza.
Alcune
filosofie e religioni riconoscono nella sofferenza una imprescindibile
condizione dell'umanità, tuttavia non ci si "arrende" all'evidenza di
DUKKHA, e si cerca di volerla esorcizzare.
Al massimo
si compensa: "c'è la sofferenza, ma..."
E' proprio
quel MA che impedisce il cammino verso l'illuminazione, in cambio di mere
consolazioni illusorie e fuorvianti.
"C'è la
sofferenza, ma..."
"...un
giorno saremo consolati"
"...se
sappiamo sopportare saremo premiati"
"...prima
o poi la sofferenza finirà"
"...dobbiamo
avere fiducia e speranza"
e via di
questo passo, di negazione in negazione, di illusione in illusione, fino ai
casi estremi in cui la sofferenza è vista addirittura come
"purificatrice".
Tutto questo
significa NEGARE DUKKHA, impedire la comprensione, non vedere DUKKHA per quello
che è.
Fare nostra
la prima Nobile Verità del "c'è la sofferenza" ci libera dunque anche
dalle nostre negazioni mentali, dai nostri istinti compensatori, dalle nostre
fughe illusorie, dalla paura della realtà, e dalla paura di ciò che non si
vuole comprendere.
Ecco allora
che "c'è la sofferenza" ci appare addirittura come un grido
liberatorio, un "rimanere tranquillamente qui" senza scappare e senza
nascondersi.
DUKKHA
diviene nostra maestra: ci aiuta a capire la condizione umana e universale, ci
fa vedere la realtà delle cose, l'essenza di tutti i fenomeni.
Chi giunge a
questa esperienza, è incamminato verso la cessazione della sofferenza.
La Seconda
Nobile Verità:
"L'origine della sofferenza"
La parola
"origine" ci fa venire in mente una vastità di speculazioni
filosofiche, mitologiche e religiose.
Ogni
religione che si rispetti ha il suo bravo mito primordiale che si propone di
spiegare, generalmente con storie semplici, adatte alla trasmissione orale,
l'origine del mondo, delle stelle, del sole e della luna, dell'umanità, a volte
perfino dei monti, laghi, mari, piante, fiori, ecc.
In questa
seconda Nobile Verità il DHAMMA ci sorprende ancora per la disincantata
noncuranza con cui evita qualsiasi pretesa di spiegare l'origine di Terra e
Cieli, di uomini e animali, di fenomeni e misteri, per giungere piuttosto a
scavare DENTRO DI NOI alla ricerca delle origini di DUKKHA, la sofferenza.
Ciò che
interessa, nel buddismo, è l'interiorità: il mondo esterno ci riguarda, tutto
sommato, solo nella misura in cui esso si riflette dentro di noi. Non è
disinteresse: è consapevolezza dei propri limiti percettivi.
Se la
sofferenza è spesso considerata, dalle leggende religiose e profane, una
"punizione" del fato o di un dio, la sua origine è conseguentemente
attribuita ad una qualche "colpa" primordiale.
Vedi ad
esempio la biblica interpretazione della sofferenza umana come risultato della
cacciata dall'Eden, a sua volta provocata dalla colpevole intenzione di avere
desideri proibiti, o anche il mito di Prometeo e di come egli abbia sfidato gli
dei con la scoperta del fuoco, ricevendo una sofferta punizione, e così via.
Nel buddismo
non si parla mai in termini di colpe e di punizioni, semmai si parla
semplicemente di cause e di effetti.
Se DUKKHA è
dunque, come tutte le cose, l' effetto di una causa, qual'è mai questa causa?
La seconda
Nobile Verità ci avverte che la causa di tutte le esperienze di sofferenza è
l'avidità. L'attaccamento al desiderio, e non il desiderio in sé stesso, è la
causa primaria di ogni sofferenza.
Perché
questo attaccamento ai desideri? Perchè rappresentano la più comoda illusione
di sconfiggere DUKKHA. Ciò è un paradosso, perché alimentando i desideri non
solo non si elimina la sofferenza, ma si pongono le basi per rafforzarla.
Nel racconto
greco del Vaso di Pandora leggiamo che oltre ai mali che affliggono l'umanità,
dal mitico vaso uscì anche la Speranza, affinché gli uomini si potessero
quantomeno ILLUDERE evitando così un suicidio di massa!
Ma se
l'origine di DUKKHA è l'attaccamento al desiderio, sarà rinunciando ad esso che
potremo farla cessare, senza l'inutile illusione basata su generiche speranze.
Va detto che
come DUKKHA non è facilmente
traducibile, anche il concetto di "desiderio" inteso come ORIGINE di
DUKKHA è molto più esteso nella lingua
Pali che in italiano.
Nei testi
buddisti del canone in lingua Pali, ciò che solitamente si traduce con
"desiderio" corrisponde a TANHA. Ma la miglior traduzione è
"avidità", perché TANHA sottintende sempre una valenza egoistica,
mentre un desiderio potrebbe anche essere del tutto nobile, come ad esempio il
desiderio di incamminarsi sul sentiero dell'illuminazione (a patto di non farne
un obiettivo da perseguire con bramosia, cosa paradossalmente possibile!)
Molte
persone pensano erroneamente che la via buddista sia una via rinunciataria, al
contrario non v'è nulla di più ambizioso che illuminare la propria mente per
vedere e vivere la realtà così come essa è, senza illusioni e senza cieca
ignoranza.
Tale
equivoco è però alimentato dalle inadeguate traduzioni della parola TANHA.
L'avidità da
cui ci si deve liberare sottintende una profonda paura dell'uomo circa la sua
condizione esistenziale. Essa è un istintivo attaccamento a tutto, nella
illusione che tale istinto compulsivo possa aiutarci ad essere più attaccati
alla vita stessa.
E' come la
disperata lotta di chi sta affogando: l'illusione di potersi afferrare
all'acqua in realtà peggiora la situazione con un drammatico quanto inutile
dimenarsi. E' una avidità di vivere che però porta alla morte.
Il
"lasciarsi andare" nell'acqua per poter galleggiare, illustra
efficacemente il tipo di atteggiamento di cui abbiamo bisogno per liberarci da
TANHA.
La Terza
Nobile Verità:
"La cessazione della sofferenza"
Arriviamo
così alla terza Nobile Verità: la sofferenza può CESSARE. L'onnipresente DUKKHA
si puo' sconfiggere, a patto di riuscire a rinunciare a TAHNA, ovvero al nostro
istinto a rimanere attaccati ai nostri desideri.
Questo passo
può sembrare difficile, e dal punto di vista della mentalità comune lo è
certamente.
Ma tale
difficoltà non ha nulla a che fare con sforzi mentali, impegni volontari,
esercitazioni del pensiero. Al contrario, si tratta di LASCIAR ANDARE.
Il punto è:
COSA lasciar andare, e COME? Le parole sono particolarmente inadeguate quando
ci addentriamo in questa terza Nobile Verità, perché si tratta di realizzare
un'ESPERIENZA che ci porta a vedere "improvvisamente" tutte le cose
in modo DIVERSO.
La
cessazione della sofferenza è un RISVEGLIO, una RINASCITA, una
ILLUMINAZIONE.... finalmente ci accorgiamo che tutto è IMPERMANENTE e che non
ha senso correre o stare fermi, capire o non capire, definire o rimanere nel
mistero.
Non siamo
più schiavi del desiderio perché ci liberiamo DALLA SUA LOGICA di continua
ricerca di nuove sazietà, che sembrano rincorrere una infinita serie di
apparenze vuote.
La
cessazione della sofferenza ci rende immutabili anche di fronte all'esperienza
della morte: se non c'e' attaccamento, non c'e' sofferenza. Se si muore, CHI è
che muore? CHI è che nasce? CHI è che vive? Non fa differenza: le cose accadono
perché mosse dalla Legge Causa-Effetto. Tutto è impermanente e tutto muta.
Tutto si modifica e tutto si ripresenta.
Quando si
realizza la terza Nobile Verità si può avere la sensazione che il sentiero del
Buddha ci consenta di raggiungere un potere straordinario e inatteso: chi si
aspetterebbe che il buddismo, oltre ai corsi di meditazione, oltre alla
recitazione dei mantra, oltre a quelle che molti ritengono delle semplici
tecniche di autocontrollo psicofisico, potesse realizzare una INESPRIMIBILE
condizione di totale LIBERTA' dalle angosce umane e dai bisogni illusori?
Eppure il
"segreto" di questa trasformazione in grado di ridefinire il nostro
modo di vedere e di sentire è tutto racchiuso nella semplice formula: "C'è
la cessazione della sofferenza".
Più
dettagliatamente, per realizzare il corretto atteggiamento mentale in grado di
condurci sul sentiero dell'illuminazione, abbiamo bisogno della quarta ed
ultima Nobile Verità. "C'è la via che porta alla cessazione della
sofferenza", ovvero l'ottuplice sentiero.
La Quarta
Nobile Verità:
"La via che porta alla cessazione della sofferenza"
Qual è la
Nobile Verità del Sentiero che conduce alla cessazione di DUKKHA?
E' il Nobile
Ottuplice Sentiero
[…continua…]
(Fonte:www.fiorediloto.org)